Per un Bari spinto, ormai, verso la deriva gozzaniana, forse il fallimento sarebbe più carduccinanente terapeutico
E' vero che il fallimento di una società di calcio lascia sempre il segno a chiunque ne faccia parte (non ne parliamo ai fruitori del prodotto) in quanto ne va di mezzo l'onta, l'onore e il buon nome, nella fattispecie ultracentenario, del titolo sportivo, ma è altrettanto vero che, mutuando un celebre proverbio, non tutti i mali (per il Bari calcio) vengono per nuocere.
Già, perchè se portare le carte in tribunale serve a spazzar via quella borghesia, vecchia, piccola e piccina - per dirla alla Lolli - e per la quale non sappiamo se provare rabbia, pena, schifo o malinconia, quella borghesia stantia, tendenzialmente ammuffita dentro le stanze del comando ubicate lassù, ai piani alti del San Nicola - e dunque non in quelle degli impiegati, segretari, commessi e dirigenti stakanovisti della stessa azienda, vittime pasoliniane dei diktat del padrone - dove per l'aria si percepisce quell'odor d'aria fritta cementificata col calcestruzzo alla rete fitta, tacita, sottotraccia dei politicanti peracottari, della cosiddetta "grande stampa" e maestranze varie, allora che ben venga: porterebbe solo una ventata d'aria pulita e, come in una giornata di maestrale, spazzerebbe 35 anni di pochissimi alti (casuali) e tanti incubi.