Non era esattamente una
partita di calcio qualsiasi, una di quelle che, dopo la sosta
panciollifica forzata dal potere calcistico, sarebbe dovuta servire
per spegnere le intermittenze di luci natalizie, no: giocare una gara
amichevole nell'estrema periferia di una città dove le bambine
venivano lasciate morire ancora di stenti, lì, sulla Via Gluk venuta
su con troppa fretta e, per fortuna, rivestita, poi, di abiti
dignitosamente quotidiani, là dove le case non son di proprietà ma
solo assegnate alle famiglie, non è equivalso esattamente a capire
se il baccalà alla vicentina mangiato da Fedato, se le cartellate
divorate da Bellomo, o se quei due chili di troppo presi da Polenta e
da Galano fossero stati smaltiti, no, ma a concepire un pomeriggio di
festa per una comunità ai margini estremi della vita dove atterraggi
e decolli di aeroplani, ed il verde che nasce e cresce senza il
sorriso quotidiano la fanno da padrone.
Una festa in cui il
personaggio abbrustolito dal flash dei 2000 baresi stipati come
sardine affumicate sotto l'olio della tribuna composta e colorata
dello stadio del San Pio, l'ha fatta da cornice. Non capita, in
effetti, tutti i giorni un Rino Gattuso, campione del mondo, da
quelle parti: lo si può trovare, per caso, in un autogrill a
consumare un seven-up davanti alla ragazza dietro al banco di
gucciniana memoria, o al gate 23 di un aeroporto nell'attesa di un
volo o, casualmente, per strada a passeggiare come tutti i comuni
mortali, ma ad Enziteto credo sia molto difficile.
Non sarà stata, forse,
una gara di campionato, un "barimilan" nostalgico giocato
sotto i freddi riflettori di un San Nicola troppo nicolaiano per
esaltarne le gesta biancorosse, e nemmeno una gara giocata al
cospetto di una luna piena di agosto o di settembre, ma il fascino
era lo stesso sebbene con sfaccettature diverse, una gara
dell'olimpiade greco-classica dove il runner poco propenso alla corsa
era lui, quel Gennaro calabrese tutto cuore e grinta nascosto dietro
la sua barba, emigrato in Svizzera - e non in Giappone e nemmeno
negli Stati poco Uniti d'America per cercar il congiungimento della
pensione - dopo aver speso una vita dietro le quinte di una mediana
brillante rossonera, sempre ligabuianamente, lì, a servir e a
smorzar palloni ringhiosi, un piccolo gigante dal cuore povero, ma
grande così, che si è dimenato per una vita dietro le quinte
vincendo, tuttavia, il titolo mondiale con quel presuntuoso di Lippi
reagendo solo come un lottatore come lui, proveniente dal rugby, sa
fare persino ad un problema grave all'occhio. E oggi, quel riflettore
di ruspante malinconia periferica acceso solo a metà, pregno di
significato e di poesia, era tutto per lui.
Così, le gesta eroiche
di Dolcenera che, pure, dovevano essere l'oggetto della gara, son
passate in secondo piano, anche la curiosità nel vedere all'opera il
ragazzino di colore, quello Junior Tallo, che da queste parti, su
quel sintetico, ci stava tutto nella sua antropologia culturale, in
un campo di calcio teatro della premiata fonderia delle bandiere
colorate dove le lingue arabe, asiatiche, africane, esteuropee e
sudmaericane calciano un sol pallone: quello esperanto.
Spettatori coloriti e
civilissimi, dicevo, stipati sugli spalti del campo periferico,
prigionieri del loro eterno baresismo, quello sano di una volta che
si vedeva ad occhio nudo sui gradoni del Della Vittoria e che tanto
ci manca, quello per cui valeva il solo prezzo del biglietto in due
(talvolta anche in tre quando pioveva a dirotto) necessario per
entrare in quel contenitore che emanava quell'inconfondibile puzza di
piscio e cemento, ancor prima di scavalcare quei rigoli di ferro
arrugginiti che separavano i non settori esistenti dello stadio
mussolinano per andarsi a sedere, poi, sui gradini consumati dalla
storia, dai nostri primi avi ingiacchettati dalla domenica religiosa
e pastificia, incapaci di muovere un solo insulto o un solo sfottò
alla guest star propinata ma che pure erano pronti a fuoriuscirlo
dalle loro corde vocali perchè, infondo, "loro son così",
hanno la battuta sempre pronta per ogni uso nella loro inconfondibile
semantica mista a mimica tutta barese.
Quel "Gattuuuso!!!"
seguito quasi da ideali puntini di sospensione, strozzato in gola e
rimasto monco da altri aggettivi nella loro genuina e colorita
offesa, come a volerlo accompagnare da un insulto ma che, poi,
saggiamente, si è incastrato laggiù nei pertugi tracheidali della
gola, ha trionfato sotto la copertura della tribuna confermando la
proverbiale civiltà popolare, mista a colore, dei baresi.
Insomma, spettatori
d'antan, quantunque armati di apparecchiature elettroniche senza pile
attorcigliate dalla carta gommata e sintonizzate sulle onde medie di
enricoameri e sandrociotti che si passavan la voce come in un
dribbling di Italo Florio, trionfo della civiltà barese, quella vera
e genuina, quella con la quale il Bari di adesso, probabilmente,
tornerebbe a volare lontano, quella sparita come la Roma trasteverina
di Trilussa che ancora aleggia come un fantasma sotto i ponti del
Tevere, quella venuta meno, dalle nostre parti, per i noti, tristi,
motivi.
E la vittoria, comunque
prestigiosa, ottenuta col gol di Galano alle spese del Sion allenato
da un altro pezzo di quasi leggenda, quel Victor Munoz compagno di
storia insieme a Mancini e Vialli ed antagonista di Dolcenera
Torrente che dall'altra parte del Bisagno issava vessilli rossoblu,
con una prestazione più che sufficiente da parte della E Street Band
biancorossa e dei suoi indomiti soldati dirigenti, attenti, puntuali
e stakanovisti della causa societaria anche in situazione
apparentemente secondarie come queste, ne è stata la degna
conclusione.
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