15 novembre 2011

Livio Manzin e le curve della memoria (e dei ricordi)


Incontrare Livio Manzin vuol dire percorrere una curva della memoria, una di quelle piacevolmente fatali per la nostalgia, una curva gravitante nella statale di un passato vissuto, intenso, ma che nessuno ci renderà, una curva sanamente malinconica.
Un volto da uomo buono, semplice, umile che ricordo ancora con nitidezza nonostante all'epoca si nascondesse, senza grande successo, dietro i suoi celebri ciuffi neri anarchici e quei baffi anni '70 - alla Gringo di Sergio Leone - lunghi e fini, diventati ormai un cult per quelli come me che frequentavano sin da quasi un ventennio, domenicalmente, il Della Vittoria, baffi nel frattempo divenuti più “anni 2000”, dunque curati, ma canuti al pari dei suoi pochi capelli, quel fisico tipico di calciatore con un andamento felpato da ex centrocampista nonostante l'inevitabile pancetta che, a dirla tutta, nemmeno tanto di intravede, un uomo capace di trasmettere una straordinaria sensibilità mista alla tradizionale freddezza nordica stemperata, però, dal suo affetto; fisiognomica tradita dai suoi racconti nei quali narra una vita (la sua) piena di sacrifici, vissuta nel focolare domestico tra l'affetto di un padre operaio nella Fiat che non poteva donargli quel benessere che molti adolescenti di oggi, invece, ricevono un po' troppo generosamente, incautamente e, magari, anche troppo frettolosamente quand'anche la famiglia, spesso e volentieri, non possa permetterselo, affetto ricevuto anche dalla mamma istriana dell'epoca di Tito, una vita, però, fatta anche di tante belle soddisfazioni tra calcio, famiglia (figlia nata a Bari) e lavoro post-calcio.


Un personaggio con cui è difficile non andare d'accordo per le sue idee moderne, essenziali, e per la sua voglia di percorrere la curva della memoria alimentata da una sana malinconia fatta, però, non di rimorsi (non ne ha) ma solo di sani e piacevoli ricordi. E con me, naturalmente, sfonda una porta aperta.
Un giocatore che non appare negli annali dei primi cento calciatori italiani di tutti i tempi e forse nemmeno dei primi centocinquanta, ma sicuramente dotato di sostanza e cervello come pochi, uno di quelli uno che ragionava col pallone e che non sbagliava nemmeno un rigore, un giocatore riconoscente per quanto il calcio gli ha dato e credente nei valori dell'amicizia che i ritiri, il terreno verde e i mutandoni ancora scosciati degli anni 70-80, gli hanno riservato.

Insieme siamo andati nell'hotel dove era alloggiato il Bari di Torrente (che gli ho presentato), perchè Livio aveva un appuntamento con Tavarilli e Boggia, unici “superstiti” del suo tempo, incontro del quale mi sento artefice avendoli io stesso messi in contatto a Borno, questa estate, al termine di una delle tante amichevoli stravinte da Torrente. Ho preferito eclissarmi durante il loro incontro ritenendo fossero momenti di sana intimità e di comprensibile emozione dove io ci avrei azzeccato come il pecorino nel caffè.
Con me si è parlato di Pauselli, Bagnato, dei miei fratelli tifosi anch'essi come lo ero io all'epoca, dello studio, dei miei tempi, di La Torre, di Pellegrini e i tempi di un calcio scommesse appena iniziato e venuto a galla, i tempi di un Della Vittoria nel cui tunnel bassissimo, Brio aveva non poche difficoltà nel percorrerlo e, a proposito di baffi d'epoca, anche di Santececca, Papadopulo e delle sue trasferte fatte anche col treno a Ferrara e in Calabria anche se quasi sempre si svolgevano in aereo, ma anche quelle con l'autobus senza troppi confort, percorrendo l'eterna incompiuta “Salerno-Reggio Calabria” con tutti i nessi e connessi, del torneo anglo italiano, di partite giocate contro il Chelsea, contro il Bath City, però, con la Reggina e non col Bari che pure l'ha incontrato.

Momento di alta emozione quando mi ha portato a vedere il Filadelfia. Mi son sentito importante, davvero, importante come un cronista scrittore che si fa accompagnare dai protagonisti di un servizio giornalistico predisposto da tempo, per ripercorrere i luoghi della memoria. E' sembrato un giocatore triste ma anche giustamente incazzato nel farmi vedere il “suo” Filadelfia e lo stato in cui è ridotto, del tutto simile ad una rovina pompeiana, uno stadio nel quale aleggia ancora echeggiano le grida spettrali degli spettatori complice anche l'orario tardo nel quale siamo arrivati quando le prime tenebre si impossessavano della zona fino a farla diventare un set di un film di Pasolini.

Le partite giocate, i titoli vinti, la sua militanza granata, Pulici-Graziani-Claudio Sala-Zaccarelli con cui è venuto su, i balconi dei condomini attigui da dove, come a Castellammare di Stabia o a Rende, gli inquilini si godevano le partite di calcio affacciati ai balconi, le grida, gli incitamenti, gli 8000 spettatori che si radunavano tra le gradinate solo per vedere gli allenamenti; e poi i ricordi di un passato ancora lontano dall'essere dimenticato.

Gli occhi lucidi han lasciato il posto ad un gustoso gianduiotto offerto dallo stesso Livio con estrema galanteria e signorilità, un gianduiotto originale Talmone mica uno di quelli dei supermercati, un gianduiotto mai stato così provvidenziale come in quel momento e che ci ha fatto andare avanti nella piacevole discussione, aiutandoci a non sbandare nella curva malinconica.
Una vita intensa passata tra casa, oratorio, una scuola per geometra intrapresa con tanta passione e, per i soliti motivi di calcio sopraggiunti, mai portata a termine, tra i campi polverosi o appena erbuti di una periferia torinese ancor più distante da quella di oggi, una vita giocata col pallone dell'umiltà, della maglietta perennemente sudata e della fatica, un uomo saggio ma non di inutile e bolsa cultura, ma di vita, quella vita che ha preso il sopravvento su di lui sin dai tempi dell'Oratorio, da sempre medicina di tanti ragazzi di periferia come era Livio quattordicenne, e che poi ha preso consistenza a Reggio Calabria quando, dopo le giovanili nelle file granata a cui seguì un anno felice trascorso nell'Albese, fu inviato per “farsi le ossa” e dove dimostrò di essere un giocatore in gamba al punto che un tal Carletto Regalia, di nostra conoscenza, che di giovani talenti di periferia se ne intendeva come pochi, si accorse di lui e lo mise in guardia dal continuare in quella direzione perchè le porte del calcio che contava gli si sarebbero aperte ben presto. Lui, giocatore bravo anche se molto umile ma consapevole di non essere mai stato un fuoriclasse e quantunque fosse conscio di aver disputato un torneo eccellente, si meravigliò di tanta attenzione: fatto sta che dopo qualche mese si trovò a Bari, dunque nel calcio che contava, nell'anno domini numero due dei Matarrese, dunque con Petruzzelli, Agresti, Punziano e Grassi e compagnia bella. Il resto è noto.

Un cruccio solo: non essere arrivato in serie A, anche per sfiorarla soltanto. Tanti i giocatori ricordati tra i quali Claudio Garzelli con cui condivise un periodo a Francavilla al Mare, non in spiaggia sotto l'ombrellone e nemmeno per andar a seguir le vicine orme dannunziane, ma alle dipendenze del presidente Luciani a sgobbar sul rettangolo verde.
Un salto al nuovo stadio della Juventus per ammirarlo nella sua beltà e maestosità dal di fuori con le sue produttive infrastrutture adiacenti da cui sono scaturiti inevitabili paragoni improponibili col San Nicola, ha poi concluso indenne da pericolose sbandate malinconiche quella curva della memoria. Lui tifoso granata da sempre (come me, del resto, anche se io non sono esattamente tifoso avendo solo il Bari nella mente e nel cuore, ma un sensibile e sincero simpatizzante e, a volte in taluni casi, anche acceso tifoso), mi ha accompagnato all'Olimpico dove, di lì a poco, avrei visto la partita Torino-Bari, e dove ci siamo salutati e abbracciati e, abbastanza commossi, ci siamo dati appuntamento su facebook ma anche a Bari quanto prima. Sarò io, stavolta, a fargli da autista sulla strada della memoria barese. Grazie Livo. La curva asfaltata della memoria ha ripreso a trafficarsi.

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