10 febbraio 2012

Istantanee biancorosse



La retrocessione, quest'ultima retrocessione, ci ha portato in uno stato psicologico davvero depressivo, tutti: io, voi, la stampa, la società, quella che tra mille difficoltà si fa nel mazzo da sempre per far cantare il galletto, ormai, spiumato e ridotto a carne da arrostire. Siam tutti spinti dalla consapevolezza che le giornate possano passare inesorabili, impotenti, mentre noi ci ritroviamo qui, ancora attoniti, storditi e spaesati a causa di notizie che ci han provocato un dolore intenso come quello di un ago di una siringa che ci perfora l'anima e non il solito braccio o il solito sedere. Voi, io, siamo prigionieri nello iato tra la speranza e la rassegnazione. Situazione davvero difficile da sorbire. Una situazione tremenda che ha dato il colpo di grazia alla passione barese quasi si fosse ancora ultima in classifica in attesa di affrontare il Palermo di Miccoli o il Bologna di Di Vaio. Il Cesena. Si, ultimi come ai tempi recenti di Mutti quando la rassegnazione aveva preso il posto della speranza lasciandoci solo l'attenuante della tripletta di Grandolfo con la quale, sia pur tra qualche sospetto di troppo palesemente evidente, spegnemmo il televisore con la fervida speranza che proprio dalle ceneri  gramsciane dell'atipica quadripletta felsinea, il galletto sarebbe tornato a cantare all'alba, magari più agguerrito che mai. Ormai era andata.


Ciak, si ricomincia. Le campane di Borno, ogni mezz'ora, a tormentarmi il sonno tranquillo della Val Camonica, io unico giornalista insieme al mio amico Guastella & C. presente 24 ore su 24 al ritiro (e lo posso gridare orgoglioso), ad assistere al balletto del chi va e chi viene, di Gazzi che gioca, poi dopo mezz'ora ci lascia trascinando un drammatico, eloquente, metaforico, significativo ed inevitabile troller, di ragazzi giovani dalle belle speranze che vogliono dare il meglio di loro consapevoli di essere approdati a Bari, mica a Pagani, di un allenatore bravo, carico di speranze e di buona volontà per aver raggiunto una grande meta e sospinto dall'Umbria dopo due tornei vissuti alla grande, un allenatore che ho affettuosamente soprannominato "Dolcenera" in ricordo di una celebre canzone di Fabrizio De Andrè che descriveva l'avanzata inesorabilmente devastante dell'acqua proveniente dai monti genovesi anneritasi a causa del regime torrentizio (aggettivo non casuale) delle famose alluvioni che trascinavan tutto fino alla foce. Ho rivisitato Vincenzo Torrente così, pensando al nostro comune amico Faber e alla Dolcenera di simpatia che avrebbe potuto devastare gli animi dei tifosi. Lui, Torrente, dagli occhioni sinceri, fraterni, quasi da scugnizzo napoletano cresciuto non nei quartieri spagnoli ma tra le case colorate di Cetara, umile, obiettivo, ma fermo e severo quanto basta rinchiuso nella sua testarda determinazione di lavorare, crescere, sbagliare, e andare avanti nonostante tutto, sordo a qualunque sirena d'allarme, ha faticato molto prima di entrare nelle grazie di quei tifosi stoici, quelli veri genuini, ancora attaccati alla squadra ma bastonati dalla retrocessione, quelli che manco una trasferta a Castrovillari li avrebbe fermati (come me, del resto), tifosi ai quali sarebbe bastato il primo errore fisiologico per far fuoriuscire il rancore verso la società attraverso l'allenatore stesso. E non era affatto giusto. Nel frattempo la Dolcenera, tutt'altro che Torrentiana, si è abbattuta in una fredda giornata invernale barese, come il Vajont, sulla città devastando anime, cuori e palazzi. E il potere. Class action contro gli eventuali i colpevoli, tutti i tifosi, già provati da anni vissuti pericolosamente e a pane e acqua, sono ancora salvi, nulla è perduto. Solo acqua, pietre e ancora acqua entro i quali galleggiano le loro speranze affinchè il galletto continui a cantare come da cent'anni a questa parte.

Vado allo stadio a seguire la partita contro una squadra, vado in trasferta qua e la, so che siamo superiori, la mia squadra è in crescita, so che l'avversario è abbordabile. Occorre ottenere i 3 punti, necessariamente, ma invece - porca miseria - si subisce un gol da chi non segnava da una vita, in perfetto stile barese, o dall'attaccante rwuandiano o del Lussemburgo che mai segnerà più in Italia alla fine del primo tempo e comincio a fare i conti con la mia vita: i fantasmi di Iacovone a Taranto, quello di Fagni della Pistoiese, di Mazzarri e la sua doppietta a Pescara, Vincze, e mi rendo conto che non è cosa oggi. Penso alla clessidra della mia vita, alle costellazioni, lo scorpione, il sagittario, il vento, la luna, tutti contrari oggi. Vedo mio padre che dal cielo mi sorride e mi dice: figlio mio è sempre andata così... non prendertela. E allora comincio a ribollire. Stoian, Busilacchi, Mujesan, Iorio, Protti, Marotta segnano pareggiano: 1-1. Vorrei gridare lassù in tribuna stampa ma non si può, non è deontologico. Fanculo alla deontologia, goooooollll! Lo grido con 20 colleghi di Nocera Inferiore, di Sassuolo, di Grosseto accanto a me che mi guardano con circospezione ma con rispettosa comprensione. Un suono come un'arpa eolica brandisce l'anima e mi fa ascoltare le melodie di una speranza, una luce, un moderato entusiasmo difficile da spiegare. Difficile. Forse solo chi c'era a Genzano, al Meomartini di Benevento, ad Alcamo, a Rende, ma anche a Pagani o a Nocera, però, 30 anni fa può capire. A Nocera dopo aver tradotto, a casa, Plutarco e le sue Vite Parallele.

La palla gira, le palle pure, le trame ci sono, Romizi, De Falco, Stoian, Caputo che sbaglia il gol, un urlo strozzato in gola. Si fa male un giocatore: addio - dico tra me e me - 5 mesi fuori, è finita. Rivedo la vita, i viaggi, gli aerei, i treni entro cui mi son dondolato pensando al tempo che non mi renderà più nessuno, alle occasioni della vita lasciate per strada, all'asfalto, alla neve di Candela. A Lecce. A Matera. A Benevento... l'inferno. Ed invece lo vedi che si rialza, zoppicante, ma si rialza. L'arpa eolica del mio dimenticar riprende a suonare. Sta bene, "non jè nudd", una botta sola, per fortuna. Poi il difensore la prende di mano, cazzo è rigore - dico - ma l'arbitro non lo vede. Un altro fallo, stavolta è rigore: l'attesa tremenda, il tiro, De Gregori, gol. 0-2 e da mo' vale, dico. Vorrei bere, fumare ma il medico mi ha detto che se accendo un'altra sigaretta muoio in seduta stante dopo tre cicli di chemio, vorrei gridare, abbracciare qualcuno ma sono solo lì dentro, in quella triste tribuna stampa di Livorno, di San Siro, di Gubbio. Di Sassuolo. E devo arrangiarmi. Allora guardo il collega di Bari  purtroppo lontano da me, gli faccio un cenno di sobria felicità, lui pure mi cerca, vuole abbracciarmi anche lui. E' difficile. Siam troppo lontani. Ma il sorriso, il cenno, il pugno che si muove leggermente dall'alto in basso a voler dire "cazzo siamo forti". Poi continuiamo a scrivere. A pensare. Poi seguo le interviste di Torrente, di Bogliacino, dei protagonisti che si mostrano tutti ottimisti per il prosieguo del torneo, avulsi come campane dalla Dolcenera non torrrentiana che sta affogando Bari, avulsi grazie al suo condottiero che, indomito errante in direzione ostinata e contraria come Faber, è riuscito a  mandar via dalle espressioni dei volti truci e spaesati fosforescenti di questo lembo pulito del calcio che si rispecchiano in Borghese e Ceppitelli che mi abbozzano sempre un sorriso di conforto, un conforto che - credetemi - non faccio mai mancare dando loro una pacca sulla spalla quasi l'aspettino da me ogni volta che ci incontriamo nelle intercapedini della vita travestite da spazi angusti di stadi, quelli che al Della Vittoria - a proposito di De Andrè - davano di piscio e cemento ma che altrove danno di maledetto futuro.

Il Bari ha vinto, da sabato prossimo si ricomincia a camminare, si punta al vertice, al sesto posto, al quinto, al quarto: "ma no, che dici: vedrai che il Padova cala. Ma no, guarda che a calare sarà il Sassuolo! Ma no! il Sassuolo ha la Mapei, sta "china china d trris", prima o poi andrà in A, se c'è qualcuno che calerà sarà il Verona di quel razzista di Mandorlini. Ma no, voglio che cali il Toro di GP Ventura così impara a metter Pulzetti su Maicon quando c'era Rinaldi disponibile!". Voci, speranze, pensieri, palloni che camminano e che parlano fermandosi nei pertugi della mente. Un terreno verde, l'umiltà dei giocatori, la rabbia di Bellomo, la tenera freddezza balcanica di Stoian che fa bene Torrente a gestire con parsimonia nonostante qualche vostra legittima protesta, la società alle spalle che c'è, c'è, esiste e il suo fiato si sente, il fiato nuovo del Dott. Vinella che sarà stato messo lì pure come parafulmine ma della cui serietà, dinamicità, professionalità nessuno osi discutere e che farà sicuramente il suo dovere alla grande, quello preesistente del Dott. Garzelli senza del quale non oso pensare cosa sarebbe stato del Bari calcio, il fiato di Guido Angelozzi che ha fatto tutto quanto era nelle sue possibilità - anzi andando ben oltre - considerando il suo budget e quanto impostogli dalla proprietà, per allestire una squadra competitiva. E ce l'ha fatta. Grande Angelozzi.  Romizi, come Stoian, come la opportuna cessione di Donati, come tanti ragazzi, sono tutte sue intuizioni geniali. Il fiato dell'Ufficio Stampa, quello dei dirigenti tutti, il Segretario D'Oronzo autentico maestro nella conoscenza delle carte federali senza del quale, come per Garzelli, non so a quanti punti di penalità sarebbe incorso il Bari durante i suoi 30 anni di militanza biancorossa, quello dei dipendenti tutti, tutti uniti nel soffiare verso terre più sicure per dare una passata di bianco e rosso, colori che per colpa di qualche imbecille, si stanno sbiadendo. Ma loro non hanno intenzione di sbiadire. Occorre che tutti si partecipi nel dare quella mano di biancorosso. Tutti. La passione - ne sono certo - forte com'è insita in noi, in voi, avrà la meglio su tutto. Non guardate ai cambi di Stoian e di Galano: guardate il gallo che non sta cantando più e ai colori che stanno sbiadendosi pian piano. Pensate a queste metafore e vedrete che presto, prestissimo il Bari tornerà ad essere "Storia" come mi disse personalmente Dolcenera Torrente.

E non fa nulla se l'anno prossimo saremo tutti un anno più vecchi. Ci sono altri secoli davanti per continuare a vivere l'emozione biancorossa. Penso a mio padre e al calcio che dette alla porta del bagno dell'Olimpico di Roma quando, al 90', Lombardo da Marsala concesse il rigore a Pruzzo il quale, giusto per rispettare le tradizioni, segnò il 2-1 finale dopo il gol di Piraccini. Mio padre, come tanti, che sono volati via senza vedere quel che, forse, avrebbero meritato di vedere dopo essere stati a Colleferro, a Bologna e ai suoi spareggi e a San Siro quando vincemmo con due gol di Catalano. A Catania quando andò con la lambretta nel '55. Cazzo ne sapete voi.
E allora cerchiamo tutti di remare verso questa nuova terra dove, tra speranze di farla franca o, quanto meno, di essere penalizzati col minimo indispensabile, e tanta buona volontà ma, soprattutto, grazie all'immenso lavoro che i dirigenti tutti stanno facendo per gettare le basi per un nuovo Bari l'anno prossimo, il galletto tornerà a cantare e i colori biancorossi torneranno a splendere vividi sulle balconate delle curve. Le vendette lasciamole a chi si adopererà per questo. Ed uno di questi, state tranquilli, sarà proprio il galletto: prima o poi li ribeccherà tutti. E saranno cavoli amari per chi ha tradito. E non solo per loro.
Domani si torna allo stadio. Dopodomani a Livorno. La vita non si ferma mai. 'M bacce o nas sempre a chi dico io. Io non mollo mai. Schiaffatevelo nella mente. Nessuno mi fermerà, nemmeno chi mi sta mettendo i bastoni in mezzo alle ruote. Attenti, piuttosto: tutto vi si ritorcerà contro.
Forza Bari

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