29 novembre 2011

Bari: ritorno al passato nel Piceno tra le sue malinconiche bellezze


Perdere ad Ascoli Piceno per il Bari ci sta pure; e non sarà un caso che su 21 incontri fin qui disputati, dal 1965 ad oggi, nello splendido set cinematografico naturale marchigiano in cui Pietro Germi diresse Alfredo, l'impiegato infelice interpretato da "Papillon" Dustin Hoffman, la squadra barese abbia perso per ben dieci volte, pareggiato otto e vinte appena tre, due delle quali, peraltro, solo in Coppa Italia ed una sola in Campionato (gol di Colombo), ma perdere così, in maniera abulica, facendo solletico in attacco, col solo Galano - esterno di destra - ad accentrarsi per tirare in porta in modo peraltro debole e centrale, no.

Si è fatto indiscutibilmente un passo indietro rispetto alle ultime tre prestazioni che, quantunque prive di vittorie, hanno lasciato ben sperare nel proseguo del torneo avulso, fino adesso, da un minimo di spettacolo, quello necessario per scaldare i motori ai tifosi baresi già di per se depressi e, nel contempo, anche moderatamente speranzosi per altri noti motivi. Macchè: "Alfredo" Torrente, senza il suo Pietro Germi, ha deciso di puntare sull'incoscienza audace sostante dentro al basso ventre (per dirla alla Guccini) di Bellomo & C., ragazzini bravi quanto vogliamo ma assolutamente inadeguati per poter stupire come gli omologhi di Catuzzi 30 anni fa, ma soprattutto inadeguati per reggere le redini di un torneo lungo e asfissiante come quello della B composto da 42 giornate nelle quali corrono solo gli squadroni o quelle squadre modeste che, però, sono impastate dalla grinta, dal cuore e dall'umiltà e che prendono coraggio dagli errori avversari. Come l'Ascoli, appunto. A questo aggiungiamoci anche una probabile sottovalutazione - o se preferite una buona dose di superbia - mostrata da parte dei ragazzi nei confronti dell'Ascoli, tipico dei calciatori privi di educazione calcistica, entrati in campo con l'approccio sbagliato generato, forse, dalla convinzione errata secondo cui un'ultima in classifica deve comunque lasciarci le penne. I soliti peccati di gioventù. Che dobbiamo fare...

E a proposito di tradizioni biancorosse, ecco puntualmente rispettata un'altra ieri al Del Duca di Ascoli: secondo usi e costumi biancorossi, infatti, i testi confermano come ci stia pure perdere contro l'ultima in classifica, tendenzialmente ed apparentemente derelitta complici anche le penalità, anche se, come nel caso dell'Ascoli, proveniente da due bei colpi consecutivi in trasferta, autentici defibrillatori per l'encefalogramma bianconero appiattitosi.
Ne avrei di elenchi da proporvi relativi a squadre cui il Bari ha risolto la crisi: solo per fare un esempio, ricordo un celebre Pescara-Bari di trent'anni fa quando la squadra dannunziana, ultima in classifica e distaccata di 10 punti dal terzultimo posto, vinse sul Bari con due gol di Mazzarri, l'attuale tecnico napoletano, e la Gazzetta titolò "da Pescara: grazie Bari". Non gli evitò, ovviamente, la retrocessione ma tanto fu. Fatto sta che anche in quella occasione non si fece una gran bella figura. E ne avrei tantissime altre... ma meglio non infierire di questi tempi, già grami politicamente ed avari di belle notizie.

Dunque una trasferta da sempre insidiosa quella dei galletti baresi contro i picchi piceni nel tradizionale derby ornitologico ma anche olivicolo. Hanno avuto la meglio i picchi sui galletti o, se preferite, le squisite olive ascolane puntate dal becco dei picchi, tutto cuore e generosità di Mago Silva(n), sulla rappresentativa di olive multietniche baresi, in calce e fritte bitrittesi, come quelle delle bancarelle delle sagre paesane nicolaiane, puntate dai becchi dei galletti spiumati e senza verve, ma trainati dal solo Donati che, gol a parte, ha dimostrato di essere l'unico ad emergere.
E pensare che la giornata era iniziata bene: tre ore e mezzo di autostrada mi avevano condotto nella terra Picena con un moderato entusiasmo spinto dalle convincenti prove fin qui sostenute dalla Torrente's Jazz Band. Ho evitato di sedermi in una trattoria del centro ascolano perchè, in genere, diffido sempre dai menù turistici, meglio dirigersi fuori, verso i paesini sperduti dove le foglie gialle d'autunno cadono sul parabrezza dell'auto candidamente quasi a volermi accarezzare e dove l'odor stantio di funghi e tartufi, misto all'humus del bosco, delizia le narici dei forestieri (da non confondersi col capriccioso funambolo biancorosso) anche col finestrino alzato, il tutto davanti a quello spettacolo naturale che sono i Monti Sibillini e quelli della Laga, lì, ad uno schioppo.

Ho trovato, grazie anche al suggerimento di un amico, un ristorante di quelli che conciliano con tutto, anche con le patrimoniali più discutibili ed ingiuste, un ristorante "Ruspante" come davvero pochi in circolazione. Un ristorante meta fissa del più celebre Sor Carletto che la storia calcistica abbia mai sfornato: pare, infatti, che Carletto Mazzone faccia capolino su questi tavoli almeno quelle quattro volte a settimana. Le sue foto in bianco e nero, quel Picchio affisso sul muro del ristorante, quell'atmosfera bucolica mista ai sapori locali, quel piatto di fettuccine ai funghi spolverati dal tartufo, quel piatto tipicamente ascolano composto da olive, scontatamente ascolane, accompagnato dalla costoletta fritta d'agnello e da cubetti di crema fritta, decisamente delizioso, buono quanto una sgroppata d'epoca di Kamata, quel piatto di salumi al cinghiale, misto al celebre Ciauscolo, un salame spalmabile fresco fresco come l'incoscienza di Bellomo e di Forestieri messa insieme, il tutto accompagnato da un Rosso Piceno niente male e, sul finire, addolcito da una anisetta locale di quelle mozzafiato (che avrei, poi, riassaggiato in prima serata seduto nel cuore cittadino di un bar in Piazza del Popolo dove il sistema wi-fi pare funzionare da una decina d'anni al pari di altri luoghi di Ascoli) mi ha riconciliato decisamente con la vita al punto che stavo per mandare al diavolo la partita serale.

Affascinante il Piceno: tra città d'arte, come Ascoli appunto, dove i vari stili architettonici si sono sovrapposti nelle costruzioni creando autentici capolavori, come Fermo o come gli antichi borghi medioevali, i celebri teatri storici, i musei, le fantastiche pinacoteche, le aree archeologiche, l'architettura medievale e romanica diversa da quella pugliese, il tutto riversato in un contesto naturalistico dove il mix terra e mare della vicina (e nemica) San Benedetto del Tronto eccelle per i piatti di pesce, si coniuga benissimo. Del resto c'ero già stato e avevo già apprezzato. E' stata solo una conferma piacevole.

E pensare che persino un pizzico di scaramanzia ci stava mettendo del suo: a differenza, infatti, del Caffè storico Pedrocchi di Padova, dove il Bari perse, significativamente, per 1-0, che trovai rigorosamente aperto e dove gustai uno dei più buoni caffè sorseggiati in vita mia, l'omologo Caffè Meletti di Piazza del Popolo, invece, risultava provvidenzialmente chiuso per turno (il lunedì fanno, evidentemente, riposo) anche se l'impatto nel vederlo chiuso, per me, è stato da tregenda: raggiungo questi posti anche, e soprattutto, per deliziarmi delle bellezze particolari dei luoghi, in particolare dei caffè storico-letterari di cui pullula il paese. Meno che Bari, candidata a Capitale della Cultura Europea. Ma questo è un altro discorso. Fatto sta che nemmeno la scaramanzia caffettiera è risultata efficace.

Poi lo stadio. Il Cino e Lillo Del Duca, teatro di epiche sfide tra Costantino Rozzi e i Matarrese, autentici ibridi, insieme a Romeo Anconetani, Massimino e Luganesi, del calcio, di un calcio che non c'è più, forse discutibile, ma assolutamente genuino. I fantasmi piacevoli di Rozzi, di Tonino Carino col suo slang marchigiano inconfondibile rappresentato nella sua espressione verbale incessante pregna di timida sicurezza, e di un calcio in bianco e nero che mi ha rinviato al passato nel vedere lo stadio, hanno fatto da apripista ai ricordi: quando ieri il Bari era sotto di tre gol ad uno, ad un tratto ho pensato alla clamorosa rimonta avvenuta in una sera d'agosto di quasi 30 anni fa, proprio su quel terreno, allorquando sul 3-0 per gli ascolani, all'81' cominciò una clamorosa rimonta targata Iorio e Bagnato i quali nel giro di 9 minuti riuscirono ad arrivare sul 3-3. Partita epica di cui pochi sono a conoscenza nella quale si frantumarono coronarie e ugole, quasi al pari dell'1-2 di Lopez al Comunale di Torino contro la Juve in Coppa Italia. Che ne sanno loro...
Pensavo ieri, seduto e rintanato in una provvidenziale tribuna stampa cabinata mentre fuori il freddo che non vi dico..., che in quel Bari c'erano gli attaccanti, ma anche in questo: ma la differenza sta proprio nella classe e nell'esperienza oltre che nel supporto. All'epoca Bagnato, La Torre, Majo, Bresciani e Frappampina potevano servire assist a Iorio, mentre in questo, a fornirli, sono Stoian Galano Bellomo Forestieri e l'anarchico Rivas e, quando gli gira bene, pure Defendi. Tutta qui la differenza per la quale, sul 3-1, ho smesso subito di associare le due partite.

Un Bari al passo di gambero, o meglio di salipcio, dunque, due mezzi passi avanti ed uno indietro con ben otto gol subiti. Il gioco intravisto dall'oblò del pensiero a Marassi rimane solo un piacevole ricordo, altrettanto dicasi per le sofferte e strameritate prestazioni di Torino e contro la Sampdoria: si ritorna mestamente alla realtà fatta di giovani incoscienti dei quali solo alcuni appaiono, ancor grezzi, già pronti per spiccare il volo verso una lenta raffinatezza, e un insieme di gente esperta il cui apporto, sin d'ora, non si è ancora visto. E se l'esperienza non dà una mano alla banda terribile dei giovanotti, sarà dure uscirne salvi, perchè i fatti hanno dimostrato che fidarsi di questa gioventù è alquanto pericoloso quantunque, di tanto in tanto, la loro incoscienza produca qualche vibrazione inevitabile.

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