20 gennaio 2013

Gattuso e Galano accendono la periferia




Non era esattamente una partita di calcio qualsiasi, una di quelle che, dopo la sosta panciollifica forzata dal potere calcistico, sarebbe dovuta servire per spegnere le intermittenze di luci natalizie, no: giocare una gara amichevole nell'estrema periferia di una città dove le bambine venivano lasciate morire ancora di stenti, lì, sulla Via Gluk venuta su con troppa fretta e, per fortuna, rivestita, poi, di abiti dignitosamente quotidiani, là dove le case non son di proprietà ma solo assegnate alle famiglie, non è equivalso esattamente a capire se il baccalà alla vicentina mangiato da Fedato, se le cartellate divorate da Bellomo, o se quei due chili di troppo presi da Polenta e da Galano fossero stati smaltiti, no, ma a concepire un pomeriggio di festa per una comunità ai margini estremi della vita dove atterraggi e decolli di aeroplani, ed il verde che nasce e cresce senza il sorriso quotidiano la fanno da padrone.

Una festa in cui il personaggio abbrustolito dal flash dei 2000 baresi stipati come sardine affumicate sotto l'olio della tribuna composta e colorata dello stadio del San Pio, l'ha fatta da cornice. Non capita, in effetti, tutti i giorni un Rino Gattuso, campione del mondo, da quelle parti: lo si può trovare, per caso, in un autogrill a consumare un seven-up davanti alla ragazza dietro al banco di gucciniana memoria, o al gate 23 di un aeroporto nell'attesa di un volo o, casualmente, per strada a passeggiare come tutti i comuni mortali, ma ad Enziteto credo sia molto difficile.

Non sarà stata, forse, una gara di campionato, un "barimilan" nostalgico giocato sotto i freddi riflettori di un San Nicola troppo nicolaiano per esaltarne le gesta biancorosse, e nemmeno una gara giocata al cospetto di una luna piena di agosto o di settembre, ma il fascino era lo stesso sebbene con sfaccettature diverse, una gara dell'olimpiade greco-classica dove il runner poco propenso alla corsa era lui, quel Gennaro calabrese tutto cuore e grinta nascosto dietro la sua barba, emigrato in Svizzera - e non in Giappone e nemmeno negli Stati poco Uniti d'America per cercar il congiungimento della pensione - dopo aver speso una vita dietro le quinte di una mediana brillante rossonera, sempre ligabuianamente, lì, a servir e a smorzar palloni ringhiosi, un piccolo gigante dal cuore povero, ma grande così, che si è dimenato per una vita dietro le quinte vincendo, tuttavia, il titolo mondiale con quel presuntuoso di Lippi reagendo solo come un lottatore come lui, proveniente dal rugby, sa fare persino ad un problema grave all'occhio. E oggi, quel riflettore di ruspante malinconia periferica acceso solo a metà, pregno di significato e di poesia, era tutto per lui.

Così, le gesta eroiche di Dolcenera che, pure, dovevano essere l'oggetto della gara, son passate in secondo piano, anche la curiosità nel vedere all'opera il ragazzino di colore, quello Junior Tallo, che da queste parti, su quel sintetico, ci stava tutto nella sua antropologia culturale, in un campo di calcio teatro della premiata fonderia delle bandiere colorate dove le lingue arabe, asiatiche, africane, esteuropee e sudmaericane calciano un sol pallone: quello esperanto.

Spettatori coloriti e civilissimi, dicevo, stipati sugli spalti del campo periferico, prigionieri del loro eterno baresismo, quello sano di una volta che si vedeva ad occhio nudo sui gradoni del Della Vittoria e che tanto ci manca, quello per cui valeva il solo prezzo del biglietto in due (talvolta anche in tre quando pioveva a dirotto) necessario per entrare in quel contenitore che emanava quell'inconfondibile puzza di piscio e cemento, ancor prima di scavalcare quei rigoli di ferro arrugginiti che separavano i non settori esistenti dello stadio mussolinano per andarsi a sedere, poi, sui gradini consumati dalla storia, dai nostri primi avi ingiacchettati dalla domenica religiosa e pastificia, incapaci di muovere un solo insulto o un solo sfottò alla guest star propinata ma che pure erano pronti a fuoriuscirlo dalle loro corde vocali perchè, infondo, "loro son così", hanno la battuta sempre pronta per ogni uso nella loro inconfondibile semantica mista a mimica tutta barese.

Quel "Gattuuuso!!!" seguito quasi da ideali puntini di sospensione, strozzato in gola e rimasto monco da altri aggettivi nella loro genuina e colorita offesa, come a volerlo accompagnare da un insulto ma che, poi, saggiamente, si è incastrato laggiù nei pertugi tracheidali della gola, ha trionfato sotto la copertura della tribuna confermando la proverbiale civiltà popolare, mista a colore, dei baresi.
Insomma, spettatori d'antan, quantunque armati di apparecchiature elettroniche senza pile attorcigliate dalla carta gommata e sintonizzate sulle onde medie di enricoameri e sandrociotti che si passavan la voce come in un dribbling di Italo Florio, trionfo della civiltà barese, quella vera e genuina, quella con la quale il Bari di adesso, probabilmente, tornerebbe a volare lontano, quella sparita come la Roma trasteverina di Trilussa che ancora aleggia come un fantasma sotto i ponti del Tevere, quella venuta meno, dalle nostre parti, per i noti, tristi, motivi.

E la vittoria, comunque prestigiosa, ottenuta col gol di Galano alle spese del Sion allenato da un altro pezzo di quasi leggenda, quel Victor Munoz compagno di storia insieme a Mancini e Vialli ed antagonista di Dolcenera Torrente che dall'altra parte del Bisagno issava vessilli rossoblu, con una prestazione più che sufficiente da parte della E Street Band biancorossa e dei suoi indomiti soldati dirigenti, attenti, puntuali e stakanovisti della causa societaria anche in situazione apparentemente secondarie come queste, ne è stata la degna conclusione.

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